Il “Maledettismo”. L’allucinazione, l’alcol e le droghe.

Come abbiamo già visto in occasione del nostro articolo Dall’allucinazione all’arte: il mito del poeta maledetto, a partire dalla seconda metà del XIX secolo molti artisti e poeti, delusi da una società borghese non propensa a comprenderli e apprezzarli e dalla quale intendevano estraniarsi poiché superficiale e ipocrita, hanno cominciato a fare uso di sostanze stupefacenti e alcoliche, considerandole un mezzo utile per sperimentare una via di fuga dalla realtà e ciò in ragione delle alterazioni alle proprie capacità percettive ed emotive che le stesse erano in grado di provocare. Ma non solo. L’abuso di tali sostanze ha rappresentato per molti artisti anche una significativa fonte di ispirazione, traendo spunto per le proprie opere dalle allucinazioni che ne derivavano, dando vita in alcuni casi a dei veri e propri capolavori

L’abbinamento della genialità artistica con abitudini di vita stravaganti ed eccessive, racchiudibile nel binomio “genio e sregolatezza”, è stato il comune denominatore della vita di molti artisti. Spesso l’appellativo “maledetto” viene erroneamente associato solo a poeti, scrittori e letterari; in realtà, nella storia sono molti gli esempi anche di pittori e musicisti che hanno condotto una vita dedita all’eccesso, facendo delle sostanze stupefacenti e delle allucinazioni parte integrante della propria produzione artistica.

I pittori maledetti: Lautrec, Picasso, Modigliani e Pollock

Con l’espressione “pittori maledetti” si identifica un gruppo di artisti attivi a Parigi a cavallo fra Ottocento e Novecento. Pur essendo stilisticamente molto diversi, in tutte le loro opere traspare una potente carica emotiva, legata alla vita dissipata che essi conducevano.

Uno dei principali esponenti del gruppo è stato Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa (1864-1901). Nella prima metà degli anni Novanta dell’Ottocento ha composto la serie di dipinti dedicati alle “maisons closes” (Fig. 1), le case chiuse parigine frequentate anche da borghesi ed aristocratici e dallo stesso Lautrec. Per quest’ultimo le “case chiuse” non rappresentavano un luogo di “perdizione” e vizio, ma piuttosto un rifugio dove sentirsi “tra gli emarginati”, come lo stesso si è sempre considerato, a proprio agio e accettato nonostante la menomazione fisica (dovuta all’interruzione della crescita ossea a causa di una malattia ereditaria) che aveva sempre condizionato la sua esistenza facendolo profondamente soffrire.

Fig. 1. Al Salon di rue des Moulins, Henri de Toulouse-Lautrec, 1894-1895, Musée Toulouse-Lautrec di Albi, by dalbera, CC BY 2.0.

La produzione artistica da alcuni ritenuta “dal pubblico per bene” troppo esplicita e pulsante e la frequentazione di ambienti corrotti e lussuriosi del quartiere bohémien e moralmente discutibile di Montmartre hanno contribuito a creare intorno a Lautrec il mito del genio trasgressivo e sregolato. Molti critici per questo hanno ritenuto le opere dell’artista scandalose, screditandole in virtù delle abitudini dell’autore. In tanti hanno inoltre approfittato della malattia, la sifilide, che ha colpito Lautrec negli ultimi anni della sua vita e dell’alcolismo per definire i suoi quadri come il frutto di una mente malata e deviata.  Per altri Lautrec è stato invece un artista sensibilissimo, capace di cogliere la dimensione psicologica dei suoi soggetti, arrivando a descrivere l’ambiente delle maisons closes per quello che effettivamente erano, senza alcuna volgarità né erotismo, facendo prevalere la spontaneità e l’intimità più profonda delle donne delle maison e spesso la malinconia e la noia che accompagnava le loro giornate. Le opere di Lautrec, infatti, non ebbero successo tra il pubblico dell’epoca, che preferiva rappresentazioni più esplicitamente erotiche e audaci.

Per Toulouse-Lautrec vivere nelle maisons di rue d’Amboie o di rue de Moulins, o distruggersi accanitamente con l’alcol, è come per Gauguin o Rimbaud andare in paesi lontani ed esotici, non attratti dall’avventura dell’ignoto, ma piuttosto respinti da quanto nel loro mondo c’era di noto” (Maria Cionini Visani, Toulouse-Lautrec, in I diamanti dell’arte, 1970).

 

Persino Pablo Ruiz y Picasso (1881-1973) per una parte della sua produzione artistica è stato influenzato da Lautrec e dall’atmosfera libertina respirata nel quartiere parigino di Montmartre. Una volta giunto a Parigi, il giovane Picasso si è infatti lasciato affascinare dalla vita notturna della capitale francese e dal movimento dei pittori maledetti. Dopo un breve periodo, però, ha deciso di tornare in Spagna dove viene a sapere della morte dell’amico Carlos Casagemas, suicidatosi con un colpo di pistola alla testa. Questo episodio getta Picasso nello sconforto e segna l’inizio del cosiddetto periodo blu (1901-1904). Una fase artistica in cui l’artista cerca di colmare il vuoto provato per la morte dell’amico dipingendo quadri malinconici ed inquieti con un evidente impianto monocromatico azzurro in cui traspaiono temi quali solitudine, povertà e disperazione. Possiamo dire che per Picasso il maledettismo ha più a che fare con la tragedia e la disperazione.

Anche Amedeo Clemente Modigliani, famoso soprattutto per i suoi ritratti femminili (Fig. 2) caratterizzati da volti stilizzati e colli affusolati, ha conosciuto nei primi anni del Novecento Lautrec e Picasso. Bello ed affascinante, Modigliani era molto amato dalle donne e ciò lo ha fatto di lui la perfetta incarnazione dell’artista geniale e trasgressivo. Buona parte dei finanziamenti che il pittore riceveva svanivano rapidamente in droghe e alcol. Quell’eccitazione che ne ricavava era utilizzata di volta in volta per vedere sempre più in profondità dentro di sé. “Modigliani non era un vizioso, un ubriacone volgare, un decadente; l’assenzio, se lo prendeva talvolta in doppia dose, era malgrado tutto un mezzo, e non un fine” (Gino Severini, La vita di un pittore, 1965). Tali eccessi, unitamente alla tubercolosi, portarono Modigliani a spegnersi a soli 35 anni. Prima di morire si racconta che un vicino di casa, non avendo notizie del pittore da diversi giorni, si sia recato da lui e l’abbia trovato delirante nel letto, circondato da scatolette aperte di sardine e bottiglie vuote. La morte dell’artista pregiudicò fortemente lo stato d’animo della moglie, la quale, incinta del secondo figlio, preferì togliersi la vita gettandosi dalla finestra piuttosto che continuare a vivere senza di lui.

Fig. 2. Grande nudo disteso, Amedeo Modigliani, 1917, Museum of Modern Art, New York, by La case photo de Got, CC BY 2.0.

Allo stesso modo Paul Jackson Pollock (1912-1956) conferma come l’essere “fuori dagli schemi” accompagni spesso delle menti geniali. Ricordato come un uomo dal carattere burbero, incapace di stare alle regole ed affetto da sbalzi di umore violenti e dal vizio dell’alcol è però considerato una vera e propria leggenda. Artista geniale e padre dell’action painting o espressionismo astratto, uno stile di pittura in cui il colore viene fatto gocciolare spontaneamente, lanciato o macchiato sulla tela. Nel 1956, all’età di 44 anni, la sua carriera si interrompe bruscamente a causa di un incidente mortale, provocato dal suo stato di ebrezza. Maledetto, dannato, tormentato e irriverente, Pollock è considerato una vera rockstar dell’arte.

Dall’arte alla musica: il Club 27

In ambito musicale il mito del maledettismo trova il suo compimento soprattutto nel genere del rock. Anche dietro alla figura delle rockstar si nascondono i vizi, usati come strumenti per scappare da una realtà che non soddisfa le aspettative. Sono tanti, infatti, i personaggi scomparsi tragicamente e in giovane età che hanno preferito fuggire dai problemi piuttosto che affrontarli, lasciando in eredità ai posteri brani intramontabili e la leggenda della propria vita. È il caso dei rocker maledetti del Club 27. Un gruppo di cantanti così denominati dalla critica perché morti all’età di 27 anni. Questo appellativo ha cominciato a prendere piede a partire dal 1994, anno della scomparsa del ventisettenne Kurt Donald Cobain (1967-1994), il frontman dei Nirvana. Definito portavoce della Generazione X, Cobain (Fig. 3a) non ha mai fatto mistero di essere dipendente dalle droghe. Il cantante è stato trovato morto nella sua casa di Seattle a causa di un colpo di fucile sembra da lui stesso esploso. Negli anni seguenti sono infatti emerse delle discrepanze fra i rapporti della polizia ed alcuni video che hanno sollevato una serie di dubbi sul suo suicidio. Ad oggi non è stata ancora fatta luce sull’accaduto e nessuno sa che cosa sia successo veramente.

La morte di Cobain è stata poi messa in relazione a quelle di altri artisti quali Jimi HendrixJanis Joplin e Jim Morrison, deceduti tutti tra il 1969 e il 1971 all’età di 27 anni per vari motivi, molti dei quali sempre riconducibili all’abuso di alcol e droghe, per incidenti stradali, suicidi ed avvelenamenti. James Marshall (Jimi) Hendrix (1942-1970) è considerato uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi ed è ricordato per il suo stile innovativo e per la sua straordinaria esibizione al Festival di Woodstock del 1969 (Fig. 3b). Anche Hendrix è stato trovato senza vita nell’appartamento che aveva affittato al Samarkand Hotel. Secondo quanto raccontato dalla fidanzata Monika Dannemann, il musicista sarebbe morto soffocato nel suo vomito, causato da un cocktail di alcool e tranquillanti. Tuttavia, la ragazza nel corso di varie interviste avrebbe rilasciato dichiarazioni contrastanti che non permettono di chiarire con assoluta certezza le dinamiche dell’accaduto.  

Fig. 3a. Kurt Cobain, Pixabay.
Fig 3b. Jimi Hendrix, Pixabay.

Janis Lyn Joplin (19431970) è stata una cantautrice statunitense divenuta famosa verso la fine degli anni Sessanta insieme al gruppo Big Brother and the Holding Company. La sua carriera si è interrotta a soli 27 anni, a causa della morte per overdose di eroina. La sua fama è andata ben oltre la vita terrena, tanto che la rivista Rolling Stone l’ha posizionata al 46° posto della lista dei 100 artisti più importanti della storia e al 28° della classifica del 2008 dei 100 cantanti più importanti di tutti i tempi. Riconosciuta e ricordata per l’intensità delle sue interpretazioni, nel 1995 è stata inoltre inserita nella Rock and Roll Hall of Fame e nel 2005 è stata insignita del Grammy Award alla carriera postumo.

James Douglas Morrison (1943-1971), conosciuto da tutti semplicemente come Jim Morrison (Fig. 4), è stato un cantautore ed un poeta statunitense, leader carismatico dei The Doors. Egli più di tutti ha cavalcato l’onda della rivoluzione culturale degli anni Sessanta, diventando uno dei maggiori rappresentanti del cosiddetto rock psichedelico. Un genere musicale ispirato alla cultura psichedelica, incentrata sull’uso di droghe allucinogene che alterano le percezioni sensoriali. Sia per le sue canzoni che per le sue poesie Morrison si è ispirato ai poeti maledetti. In pochi sanno che per scegliere il nome della sua band ha preso spunto dal saggio di Aldous Huxley Le porte della percezione (The Doors of Perception), testo in cui l’autore racconta le esperienze vissute tramite l’utilizzo della mescalina, il principio attivo del peyote, oche portava sempre con sé una copia delle Illuminazioni di Rimbaud, decantandone i brani.

In realtà, non si può parlare “solo” di ispirazione ma piuttosto di analogia tra le vite sregolate del cantautore e dei poeti maledetti, dal senso di profonda ribellione contro le convenzioni sociali all’innalzamento del poeta come visionario capace di sconvolgere e mettere in discussione con il suo racconto della realtà lo spirito e i falsi principi predominanti della collettività, evidenziando con il proprio intuito la crisi della società e dei relativi valori. Un filo conduttore che non si interrompe neppure in relazione alla morte; analogamente ad alcuni degli intellettuali “ribelli”, anche Jim Morrison muore in circostanze imprecisate. Viene trovato morto nella sua vasca da bagno. I referti medici riconducono l’accaduto ad un arresto cardiaco, anche se però non è mai stata eseguita alcuna autopsia. Ad ogni modo, i fan e i biografi sono convinti che la causa del decesso sia da ricondursi ad un’overdose. Nonostante ciò la morte di Jim Morrison rimane tuttora avvolta da un alone di mistero. Nel corso del tempo sono circolate diverse voci secondo cui addirittura Morrison avrebbe di fatto simulato la sua scomparsa per sottrarsi alla popolarità e dedicarsi alla poesia.

Fig. 4. Jim Morrison, Pixabay.

Conclusioni

In tempi moderni una parte della critica ha ipotizzato che i trapper di oggi possano raccogliere l’eredità dei rocker del Club 27. Valerio Mattioli, esperto musicale e di culture pop, ha però archiviato il maledettismo come fenomeno esclusivo del Novecento. Per Mattioli cantautori come Achille Lauro e Sfera Ebbasta non avrebbero nulla a che fare con gli artisti maledetti del secolo scorso, in quanto la loro musica mira semplicemente a raccontare la realtà nuda e cruda della vita quotidiana, senza alcuna influenza bohémien o intenti provocatori.

Al di là delle interpretazioni il filo conduttore degli artisti “maledetti”, siano essi poeti, pittori o musicisti, è il fatto di essere diventati dei veri e propri miti non solo per le loro opere d’arte, ma anche in virtù dell’esistenza che hanno condotto. Le sofferenze e le tragedie della loro vita li hanno avvicinati al grande pubblico, fissandoli nell’immaginario comune dove rimarranno impressi per sempre.

Quando il mio corpo sarà cenere, il mio nome sarà leggenda

(Jim Morrison)

Veronica Elia

Occhiocapolavoro

Dott. Giuseppe Trabucchi  – Medico Chirurgo – Specialista in Clinica e Chirurgia Oftalmica

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Iscrizione Ordine dei Medici Chirurghi di Milano n. 25154